Istituzione della Dogana di Foggia

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Un punto di svolta fondamentale si ebbe nel 1447. Il primo agosto di quell’anno, infatti, il re di Napoli Alfonso I d’Aragona emanò una prammatica che regolamentava la transumanza e istituiva la “Dogana della mena delle pecore di Puglia”. L’obiettivo era chiaramente quello di creare nuove entrate per lo Stato, valorizzando un’istituzione e una pratica secolari.
La Corona di Napoli possedeva infatti, in Puglia – e in particolare nel Tavoliere –, vaste distese di terre demaniali inutilizzate a fini agricoli, a causa della scarsa fertilità del suolo, della presenza di paludi e, soprattutto, della bassa densità abitativa. Al momento dell’istituzione della Dogana, la Corona si preoccupò inoltre di acquisire tutti i terreni compresi tra l’Abruzzo e la Puglia che erano tradizionalmente utilizzati per la transumanza. Queste terre, divenute demaniali, costituirono da allora la spina dorsale del sistema transumante: i tratturi.

La “Dogana di Foggia” divenne rapidamente un’istituzione molto potente, chiamata a occuparsi di numerosi ambiti: dall’amministrazione della giustizia, alla riscossione della fida, dalla manutenzione dei tratturi, alla gestione della grande fiera mercantile di Foggia. È proprio grazie alla ricchissima documentazione prodotta dalla Dogana che oggi possiamo ricostruire in dettaglio la storia della transumanza fino alla sua abolizione.

La prammatica fissava regole precise. La transumanza diventava obbligatoria per tutti i pastori che possedevano più di 20 capi di pecore di razza gentile. In cambio, ai pastori venivano concesse numerose facilitazioni: forti sconti sull’acquisto di farina, olio e sale (quest’ultimo fondamentale nella pratica pastorale, poiché somministrato alle pecore per prevenire malattie e tradizionalmente molto costoso). Inoltre, i pastori erano liberi di migrare tra Abruzzo e Puglia essendo esentati da ogni tipo di gabella. Fino a quel momento, infatti, erano costretti a pagare dazi e pedaggi per attraversare le terre baronali. Il re li prendeva di fatto sotto la propria protezione: in cambio del pagamento della fida, li esonerava da qualsiasi altra imposizione fiscale verso terzi.

Alfonso I istituì anche un foro legale dedicato esclusivamente ai pastori transumanti: essi erano quindi soggetti a una giurisdizione distinta da quella degli altri sudditi. L’intento era quello di tutelarli contro soprusi e prepotenze, permettendo loro di svolgere il mestiere senza continue interferenze. Furono nominati dei giudici specifici, spesso però con preparazione insufficiente e non di rado schierati a favore dei pastori. Istituzioni simili esistevano già in altre regioni interessate dalla transumanza, come Spagna, Toscana e Lazio; la novità del Regno di Napoli stava però nell’ampiezza delle competenze attribuite ai giudici doganali, che non si limitavano ai controversi legati alla transumanza, ma potevano trattare qualsiasi tipo di reato, compreso l’omicidio.

Sebbene l’istituzione del foro dedicato fosse lodevole nelle intenzioni, nel lungo periodo produsse effetti distorsivi. Accadeva, ad esempio, che personaggi ricchi e potenti, senza alcun legame con la pastorizia, dichiarassero fittiziamente di possedere 20 pecore gentili e pagassero la relativa fida, allo scopo di sottrarsi alla giustizia ordinaria. La coesistenza di due sistemi giudiziari generò inoltre tensioni tra i magistrati: i giudici ordinari, retribuiti tramite le spese processuali a carico delle parti, vedevano diminuire i propri introiti e cercavano di arrogarsi cause che coinvolgessero i cosiddetti “finti pastori”, ossia coloro che pagavano la fida pur non possedendo alcuna pecora. La risposta era però sempre la stessa: chi pagava la fida era considerato a tutti gli effetti un pastore e pertanto soggetto alla giurisdizione doganale. 

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