La Doganella d'Abruzzo

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La Doganella d'Abruzzo

Avendo stabilito che anche le pecore di specie gentile potevano evitare la transumanza a patto che fosse pagata la relativa fida, si pose il problema della riscossione di tale contributo. A questo scopo venne istituita la Doganella delle pecore rimaste, formalmente associata alla Dogana di Foggia.

Si comprese subito che il compito assegnato alla Doganella non era facile da attuare. A differenza delle pecore transumanti in Puglia, che dovevano seguire percorsi prestabiliti e sostare nelle poste assegnate, facilitando così il calcolo e la riscossione della fida, le pecore rimaste erano generalmente greggi di piccole dimensioni, spostabili rapidamente attraverso sentieri montani. Ciò complicava notevolmente il lavoro dei riscossori, che spesso vedevano sparire intere greggi da un giorno all’altro. Le entrate economiche della Doganella non furono mai particolarmente consistenti: il suo ruolo principale era piuttosto quello di dissuadere i pastori dal sottrarsi alla transumanza.

Il pagamento della fida dava diritto a usufruire degli erbaggi invernali (vernotica o vernareccio) dei terreni demaniali in Abruzzo, di estensione molto più limitata rispetto a quelli pugliesi. A differenza della Puglia, ai pastori non veniva assegnata una posta precisa, e le zone disponibili dovevano essere condivise tra più greggi, rendendo spesso insufficiente il foraggio e costringendo i pastori a integrare a proprie spese.

Inizialmente la fida veniva calcolata su base dichiarativa, ma i risultati furono meno efficaci che in Puglia: senza una posta assegnata, i pastori non erano motivati a dichiarare un numero di capi superiore a quello reale, e spesso dichiaravano addirittura meno capi per ridurre la tassazione. Per ridurre queste frodi, nel 1621 si adottò il metodo della transazione: le pecore venivano enumerate ogni tre anni e tale numero, incrementato del 10% ogni anno, serviva per calcolare la fida. Questo metodo era chiaramente iniquo: in caso di epidemia o mortalità dei capi, il pastore era comunque tenuto a pagare per pecore che non possedeva più.

Nel 1590 la Doganella d’Abruzzo divenne autonoma rispetto alla Dogana di Foggia e, con il tempo, assunse altre forme di riscossione. In Abruzzo era consuetudine che i proprietari di terreni delle zone costiere cedessero alle università locali (municipalità), dietro compenso e nel periodo di riposo dei terreni, il diritto di vernareccio. Le università rivendevano tali diritti all’asta ai pastori montani, in una vendita detta a “stoc”, e i terreni interessati divennero noti come stucchi.  Con il tempo, la Doganella rilevò direttamente questi diritti, ampliando così la platea dei contribuenti: tanto i possessori di pecore gentili che di carfagne, mosce e bigie, se interessati ai pascoli di pianura, erano tenuti a pagare alla Corona una tassa. Meccanismi simili erano applicati nelle poste d’Atri, dove l’oggetto dell’asta era l’affitto della posta stessa.

In entrambi i casi, purché fosse pagata la fida, il numero di pecore introdotte nei terreni non veniva conteggiato, ma non era consentito introdurre capi non appartenenti a colui che si era aggiudicato l'uso del terreno. Tale regola era imposta per evitare che i possessori di pecore gentili sconfinassero dai terreni demaniali verso quelli delle poste o degli stucchi, pagando l’affitto al detentore del terreno ma eludendo così il pagamento della fida dovuta alla Doganella. La rilevazione delle frodi rimaneva comunque problematica, come già sottolineato.

Con il tempo, lo Stato borbonico divenne il principale titolare dei diritti sui terreni abruzzesi e approfittò di questa posizione per emanare leggi restrittive che limitavano i diritti dei proprietari: non potevano cambiare la destinazione d’uso dei terreni né dissodarli per non compromettere i pascoli. Il diritto di sfruttare la vernotica si trasformò così in una serie di servitù obbligatorie.

Nella seconda metà del Settecento, questo contesto favorì la nascita di movimenti di coltivatori che cercavano di recuperare il pieno possesso delle loro terre. Il momento era infatti favorevole: la richiesta di lana pregiata diminuì per via delle importazioni estere, rendendo meno redditizio l’allevamento ovino, mentre l’incremento demografico aumentò la domanda di prodotti agricoli. La Doganella, che garantiva margini limitati di guadagno, perse così importanza economica. In questo scenario, Melchiorre Delfico rappresentò le istanze dei coltivatori, cercando di ottenere l’abolizione della Doganella o almeno delle leggi più restrittive imposte dai Borbone.

Nonostante ciò, la Corona mantenne l’istituzione fino alla sua definitiva abrogazione, avvenuta l’8 maggio 1807, per via delle riforme napoleoniche introdotte nel Regno di Napoli.

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